(sf) Con la deliberazione n. 667/2019, il Consiglio di Stato ha espresso il parere in ordine allo Schema di Linee guida ANAC aventi ad oggetto “Individuazione e gestione dei conflitti di interesse nelle procedure di affidamento di contratti pubblici”, in attuazione dell’articolo 213, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50.

Nel documento i giudici delineano un approfondimento interessante sulla nozione di “conflitto di interessi” affermando che “il conflitto riguarda propriamente gli interessi, vale a dire la tensione verso un bene giuridico che soddisfi un bisogno. La nozione non si riferisce quindi a comportamenti, ma a stati della persona. In linea di teoria generale dell’analisi economica del diritto, un conflitto di interessi si determina le volte in cui a un soggetto giuridico sia affidata la funzione di cura di un interesse altrui (così detto interesse funzionalizzato) ed egli si trovi, al contempo, ad essere titolare (de iure vel de facto) di un diverso interesse la cui soddisfazione avviene aumentando i costi o diminuendo i benefici dell’interesse funzionalizzato. Non rileva particolarmente se tale interesse derivi da situazioni affettive o familiari o economiche. Per l’inquadramento di teoria generale è sufficiente che sussistano due interessi in contrasto economico: quello funzionalizzato e quello, di qualsiasi natura, dell’agente.”

E si aggiunge che “il conflitto di interessi non consiste quindi in comportamenti dannosi per l’interesse funzionalizzato, ma in una condizione giuridica o di fatto dalla quale scaturisce un rischio di siffatti comportamenti, un rischio di danno. L’essere in conflitto e abusare effettivamente della propria posizione sono due aspetti distinti.”

“Perché il conflitto sorga è dunque necessario che si sia alla presenza di veri e propri interessi, rispondenti alla definizione sopra ricordata, vale a dire che effettivamente sussista un bisogno da soddisfare e che tale soddisfazione sia raggiungibile effettivamente subordinando un interesse all’altro. Vengono quindi in rilievo non già situazioni astratte e meramente potenziali, ma concrete, specifiche e attuali.”

Per quanto concerne il “conflitto potenziale” il Consiglio di Stato propone l’cessione “potenziale conflitto” ed evidenzia il rischio di comprendere un numero infinito di situazioni razionalmente, ma solo astrattamente, individuabili a tavolino, misurabile utilizzando la categoria del possibile piuttosto che quella del probabile, con conseguente impossibilità di fornire elementi precisi di valutazione.  Al riguardo occorre distinguere situazioni di conflitto di interessi da un lato conclamate, palesi e soprattutto tipizzate (quali ad esempio i rapporti di parentela o coniugio) che sono poi quelle individuate dall’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013 citato; dall’altro non conosciuti o non conoscibili, e soprattutto non tipizzati (che si identificano con le “gravi ragioni di convenienza” di cui al penultimo periodo del detto art. 7 e dell’art. 51 c.p.c.). Si tratta, ad avviso della Sezione, di situazioni da definire (non tipizzate ma) qualificate teleologicamente, come meglio si vedrà avanti al paragrafo 3 di questo parere.

Ritiene la Sezione che tali situazioni non possano essere individuate con riferimento a un numero aperto, indeterminato e indefinito di rapporti e relazioni del soggetto pubblico (come emergerebbe dalla definizione del reg. UE sopra citato), ma debbano essere indagate, come già accennato, solo alla luce dell’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013 e dell’art. 51 c.p.c. La struttura delle due norme è, infatti, identica e complementare. Nel primo comma l’art. 51, con parole diverse, ripercorre le ipotesi di cui all’art. 7, primo periodo, nel secondo comma si riferisce esattamente alle “gravi ragioni di convenienza” come il penultimo comma del citato art. 7.

Le situazioni di “potenziale conflitto” sono, quindi, in primo luogo, quelle che, per loro natura, pur non costituendo allo stato una delle situazioni tipizzate, siano destinate ad evolvere in un conflitto tipizzato (ad es. un fidanzamento che si risolva in un matrimonio determinante la affinità con un concorrente). Ciò con riferimento alle previsioni esplicite riguardanti sia il rapporto di coniugio, parentela, affinità e convivenza, sia alla possibile insorgenza di una frequentazione abituale, sia al verificarsi delle altre situazioni contemplate nel detto art. 7 (pendenza di cause, rapporti di debito o credito significativi, ruolo di curatore, procuratore o agente, ovvero di amministratore o gerente o dirigente di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti)

Con riferimento al conflitto di interessi nei contratti il CDS rileva che “l’ANAC afferma al paragrafo 2.6 delle Linee Guida, cioè che: “Le situazioni di conflitto di interesse di cui all’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62, sono richiamate dall’articolo 42 del codice dei contratti pubblici a titolo meramente esemplificativo e rappresentano ipotesi predeterminate per le quali la valutazione della possibile sussistenza del rischio di interferenza dell’interesse privato nelle scelte pubbliche è operato a monte dal legislatore.”

“L’affermazione desta perplessità. Considerare le ipotesi di cui all’art. 7 ripetutamente citato solo come esemplificazione, significa postulare la esistenza di una categoria sconosciuta ma più ampia, e contestualmente aprire a quella indeterminatezza e genericità che si è visto essere congenere con la infinitezza del possibile piuttosto che con la semplice probabilità, propria del rischio.

Le situazioni di conflitto di interessi assumono una notevole rilevanza nei confronti del soggetto pubblico per le gravi conseguenze giuridiche derivanti dalla omissione della loro dichiarazione. Dunque non se ne può accettare una definizione generica e indeterminata che non renda possibile inquadrare precisamente l’oggetto della omissione, considerando le ricadute disciplinari ma soprattutto penali ai sensi dell’art. 323 c.p. atteso che la violazione dell’obbligo di astensione ove prescritto (anche dall’art. 42 in esame, quindi) è intesa per giurisprudenza costante dalla Suprema Corte come un dovere di astensione introdotto nell’ordinamento in via generale e diretta dall’art. 323 c.p. (ex multis Cass. Pen. Sez. 6, 15 marzo 2013, n. n. 14457, 19 ottobre 2004, n. 7992) introducendo una norma penale in bianco completata dal richiamo alle varie ipotesi di astensione contemplate dalle leggi speciali, e indipendentemente dall’avverarsi del fatto dannoso.”

A tal proposito ritiene, invece, la Sezione che l’art. 42 contenga tre categorie distinte di conflitto di interessi identificabili con sufficiente determinatezza.

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